lunedì, ottobre 28

Piccole mani, mobili, attorno all'esile corpicino. Ruotate e in fermento, di sovente le innalza, assieme allo sguardo, alla ricerca di qualcosa o per farti osservare ciò che già ha analizzato in profondità. Lidia. Le minuscole ginocchia leggermente piegate, a raccordare il sederino un po' all'indietro. Gli occhi grandi e scuri, accentuati da folte ciglia che ne sottolineano l'intensità. Provo a sollevarla con le mani ma, lo sento, già sfugge. E' costantemente proiettata in avanti, al momento che verrà e che ancora non ho intravisto, io. Placarla, confinarla, tutto inutile, è mossa e ribelle, per impeto fisico, innanzitutto, e per incontenibilità intellettuale, subito dopo. La cerco inseguendola, ma è troppo veloce, annaspo e non mi arrendo e a volte, di rado, mi trascina nel suo mondo parallelo. Quei quattordici mesi e quella volontà definita ed inviolabile, bastano ad incutere timore; ha una vita innanzi, e chissà dove potrà arrivare, anzi librare se stessa. Essere all'altezza, un dilemma che inchioda tutti, ma sentirsi inadeguato per una vita che emerge lascia una traccia. Lei mi osserva, e io la guardo, immobile il suo sguardo e le mani basse e immobili, poi alza il musetto e mi fa un cenno. Sembra capire, sempre che ce ne sia bisogno, poi un sorriso a due denti, semplice, come mi vorrebbe. La seguo, si siede per terra, scoperchia il cesto e gli si riapre il sipario.

domenica, ottobre 27

Con meno di 8 d’emocromo bisogna trasfondere. Non puoi sognarti di leggere, scrivere, impegnarti in ogni sorta di attività che richieda l’intelletto. E io, che credevo che si dovesse usare sempre, rimango spiazzato. E Charles Baudelaire, Edgar Alan Poe o Fernado Pessosa, che notoriamente componevano le loro opere, tra le migliori, sotto l’effeto di alcool o, addirittura, di droghe? Ma si potrebbero elencare decine di casi simili. La stretta connessione tra genio e sregolatezza, ritenuta linfa creativa di molti capolavori, allora ha validità soltanto se l’incipit è dato da noi stessi. Sono adagiato sullo scrittoio, la pagina è bianca e l’idee non brillanti, allora giù con un buon wisky, dei bei bicchieri colmi che ingannino la coscienza e amplificano il nostro ego. Non credo che sia solo così, e l’argomento non così semplice come lo si sembrerebbe liquidare. Spesso mi capita di scrivere con questa sensazione di torpore, e non è che sia voluta o ambita, semplicemente, questo, è il mio stato attuale. Rinunciare? Rimandare a tempi migliori? Forse. Ma non avrei colto, lasciandone traccia, nulla di quel pensiero fumoso, svanito ed evanescente, che alla lucidità spigolosa lascia un tracciato di sensibilità ovattata che riesce a penetrare la materia e stralciare i pensieri. E’ un modo pacato, scivoloso, ambiguo, di assorbire i contorni, smussando quegli spigoli che, ora, non hanno senso. A voi l’esperienza di aver intravisto un'altra ombra, non che sia prescritto, e a me quella di sembiare battello veramente ebro, per sbordare tra queste inquiete acque. Insomma, di necessitate virtute.

venerdì, ottobre 25

Da tempo avrei voluto, ma le cose vanno da sole come devono, come se sapessero. Giorni spesi a pensarci, ma poi a cosa non mi è tutt’ora chiaro. Si, avrei voluto scrivere, come ad un amico lontano, perso tra le pieghe della vita e il tempo che allontana. Avrei voluto scrivervi, ma nasce un dilemma quando ci si sente soli, tutto è filtrato tra le spranghe verticali del senso comune, dell’opportunità. Mi sono fermato a pensare ed ho sentito nostalgia per qualcosa che non può esistere; osservando il mio profilo su di una finestra, attraverso il vetro troppo sottile, non ho intravisto risposte, ma ancora e più sguardi sfumati e insensati. Una parola per tutti, qualche rigo allegro, un rimando a un giorno da ricordare, sorrisi, sguardi e qualche mano da adagiare, ogni giorno, tutti, ho immaginato. Questa comunità è già testimonianza di barriere abbattute, è il bisogno di credere che si può vivere al di fuori dal proprio steccato. Che si possa essere simili nel pensiero, violando la fisicità da cui ci facciamo rappresentare, è un’utopia che voglio abbattere per poter sperare e lasciarmi incantare, ancora. L’apparente asetticità del virtuale è un assalto alla compostezza metodica del bieco quotidiano, per ritrovarsi e rileggersi fuori da spazio e tempo, perché non c’è luogo e non c’è ora. Una fitta rete di pensieri e riflessioni si muovono tra un treno, una pizza o un bar, in un insieme di link tra me e voi, tra noi, in un click non dato dall’indice sul mouse ma, da un’interconnessione che è cultura, comunicazione, a volte scontro e in ogni caso pensiero, sferzante e dinamico. Ed ecco, tra un sogno ed un viaggio mi ritrovo qui, a scrivere, a sorridere solo, pensando ai vostri mille sguardi che non vedrò mai, ognuno diverso e proiettato nella propria dimensione che a volte, e basta già, è la nostra. In fondo vi “sento” tutti, anche quando tra me e il monitor ci sono ore di silenzio e pause profonde. Non perdiamoci, però, scriviamoci spesso, nella tastiera c’è la nostra corte e, lo voglio dire, io ci sono.

Manilo, e il blog in Là.

giovedì, ottobre 24

Le tre e mezza del mattino, una sveglia ed il suo trillo che irrompono nel sogno, sino ad entrarci e a farne parte. Poi un altro a far giungere il sospetto; un braccio si muove, struscia un lembo del lenzuolo e adagia la mano: click!. C’è il silenzio attorno, e ne osservi i residui di luce che filtrano dalla finestra; sarà un lume e una strada, su cui svirgolano auto, anche nella notte, in questa. Dei passi soffici si muovono per la stanza, dove una tuta rossa amaranto attende e incontra delle scarpette affiancate e pronte, se solo i lacci verranno stretti. Muoversi nel buio, già questo è un esercizio di stile, e muoversi tre le linee d’ombra e farne parte senza violarle. Scese le scale, cercate le chiavi, accesso il motore, via! per la città che osserva e che non vuole ritmo, ma svolte ed eteree riprese. Fermo, poi, per ripartire. Due scarpette morbide che pieghi e riprovi e infiocchetti, ben stretti: si deve andare. L’aria è addosso, umida e scura e guida i passi e l’accennato respiro segue lento viale dopo passo. Da una curva si scende, incoronando le ginocchia che svettano poi a ridosso delle mura. Nell’attimo la quiete, o sommesso silenzio, eretto il busto per uno sconnesso oblio; si emerge e si va giù per il solco degli ultimi lapilli. Un monte a manca, mostro solenne, specchiato su quelle acque da cui il giorno intanto emerge. Ci sono quei passi, rigirano la volta e vanno su silenti. E’ l’ultimo giorno, scoperto di notte, per esistere attraverso un velo chiamato vento, specchiato per cui riflesso, udibile, come un ricordo.

lunedì, ottobre 21

In quella via Maqueda, dove la storia delle città di Palermo nacque e si dipanò nei secoli di vicolo in vicolo, la libreria Feltrinelli era uno dei miei luoghi preferiti. Tra i respiri lenti e affannosi della borgata, che nel sottofondo di cupi rumori senti, puoi disperderti tra scaffali densi di colori e libri, e tra gli scritti viaggiare è d’obbligo. E’ questo uno dei pochi momenti in cui le ore scorrono veloci, lasciando alle spalle il sospiro di dover impiegare il tempo. Tra i testi un giorno mi trovai tra le mani, con una casualità mai fine a se stessa, “Il poeta è un fingitore” una raccolta di testi, che allora credetti massime, di Fernando Pessoa proposte dalla sapiente mano di Tabucchi. Da quell’anno, sarà stato il ’97, quel poeta atipico, quegli inni all’amore che ritrovi solamente criptati tra le righe, mi scoprirono. Si, perché ho sempre avvertito che Pessoa e i suoi numerosi eteronomi fossero penetrati nel mio pensiero per una corrispondenza biunivoca. Una sorta di opera tenue ma continua nel tempo, verso dopo verso. Quello che ho sempre trovato unico in questo poeta portoghese d’eccellenza, è la capacità di coniugare un realismo freddo, e a tratti lancinante, con più dimensioni oniriche frutto di un lucido sonno. La capacità di dialogo con gli elementi più assoluti della vita, quelli meno materiali, ha dell’incredibile; l’intenzione palese di sviscerare ogni inganno, pur nell’esigenza di viverlo, ha dato vita ad un autore unico a cui il mio pensiero spesso attinge.

domenica, ottobre 20

Vorrei leggere una rivista, tenere un libro tra le mani, ascoltare della musica, studiare il tcp/ip. So che tutto sarà disatteso e che le cose vanno come vanno, le buone intenzioni, quelle si, rimangono. Scorrere semplice e libero, questo dovrei, senza steccati, senza mete, senza dictat. Fermarsi è un gran problema, decadono gli alibi, non c’è più il movente del dover correre, del tempo negato, dello stress e della stanchezza. Quando si vuole essere tutto, inesorabilmente, si finisce per diventar niente e il tempo passa e scarseggiano i rimedi. Ogni giorno si pensa più intensamente e il peso del nulla diviene insostenibile, questo rimedio, queste righe pesanti, sono un respiro che rendono vivi. Ci sono tracce irrinunciabili, lievi segnali che vanno avvertiti, inclinazioni da sfregare tra le mani per sentirne il calore, alcune piccolezze mai emerse ora divenute enormi e irrinunciabili. Quelle quieti che scendono nel mattino d’ogni giorno e ti cingono attorno senza recinti, senza pretese, ma con dei bagliori lievi di cui mai si potrebbe più fare a meno, fanno parte di un mondo parallelo al conosciuto, e che con esso all’infinito inevitabilmente si congiungerà, nel punto notoriamente definito improprio.
Guardo,
ci ripenso,
l’ordine casuale di quei tasti,
di quella marea di simboli,
insiste indomabile.

Non c’è fuga, oggi, nelle parole
attendo qualcuno che sappia spiegarmi
adagiato, semplice,
tra spazi e storte righe
dove lenti si và.

Quando scorro tra le voci dei pensieri,
mi arresto prima che labili
sfumino esausti e l’impeto li travolga,
allora immagino e traspongo per carpire
un giorno se sarò dove pensai che sarei stato.

venerdì, ottobre 18

Tutto è uguale a se stesso, i colori, le forme, i rumori. Quello che posso, come sempre, è osare l’indifferenza e scivolare lento e tenue, abbassando il capo come nei sogni. Quello che celi allo sguardo non ti vede e non ti piomberà addosso. Bisogna simulare, ricorrere alla fermentazione cerebrale, che, chiamala come vuoi, è violenza sulla propria indole e sofisticazione del naturale andamento. Ci sono cose troppo grandi e complesse per riuscire razionalizzarle, metabolizzarle, e, ancor di più, spiegarle. Ci provi, cerchi il momento, ma nessuno è quello giusto, ne tantomeno ne arriverà uno migliore. Quando violenti la mente, e vuoi tendere una mano, muovere le labbra, ecco il nodo in gola e le parole muoiono lente, ancor prima di essere proferite. Questo diario di bordo si muove tra mille bufere, attendendo la quiete.
Aspetto incurante l’ora prevista, snobbando l’attesa, centellinando i minuti, portando a termine i miei riti. Incastonati uno dopo l’altro, le abitudini, gli oggetti, alcuni libri, qualche disco; e i ricordi, le attese, le ansie, le fobie e pochi sguardi, fedeli e aderenti compagni. Ruoto sul mio asse, mi abbasso osservando uno scalino dove a volte mi adagio e mi perdo nel vuoto. Gli stessi moti, lo stesso andamento, la stessa metafora su scene diverse, è andata così e così, credo, andrà per un po; non che lo sappia o che lo abbia deciso – intenzione di per se inattuabile -, ma così vanno le cose, e non credo di far eccezione. Vado avanti, meticoloso, distratto, mai in linea retta, spesso vagamente rotante, e completo, quello sempre, il mosaico rituale, la formuletta dell’essere: il mio. Poi parto, transito, sospiro, tardo ed infine arrivo; scendo dal mezzo e salgo già incosciente. Si vive in quegli attimi, si vive sempre perché vivere è un’azione involontaria, non la controlli, lo fai e basta, spesso senza troppi “perché?” e “dove?”; unico intoppo l’Evento, e riparte la clessidra. Ritorno all’inverso, sui miei passi, come per un eterno gioco dell’oca, rimetto, lo voglio, disordine, su oggetti, pensieri, ricordi e riti. Non devo, non posso lasciarli “armati”, servono solo nell’emergenza. Se sono arrivato qua, se queste righe sono già sfuggite via lisce, per la gravità delle dita sulla tastiera, so bene che ogni giorno c’è un’emergenza e bisogna, quindi, sfregare tra le mani qualcosa, che mi dia il Là, che mi lasci immaginare la mia stella polare. E’ un mondo avvolto di simboli, e i simboli non parlano, sono lì, distesi e casuali, anelano corrispondenze, che io bramo ed inseguo in ogni istante che per me è l’Istante. In Te, Te che sai.

giovedì, ottobre 17

Non è l’area, tantomeno una virtuosa geometria, ad essere definita dal vocabolo areale. Non ci sono calcoli, erudimenti matematici o funzioni esplicative. E’ uno dei casi in cui viene reinventato il significato di un vocabolo già esistente. Ugo Locatelli, studioso e ricercatore dell’immagine, contribuisce all’arricchimento di un lessico che a volte stenta a seguire le evoluzioni del modo di intendere l’arte. Le arti figurative, alle origini e nel recente passato, soddisfacevano l’esigenza di una rappresentazione “fedele” del reale. La pittura, il disegno, la fotografia, erano pure rappresentazioni documentaristiche, il cui valore rasentava tanto più l’eccellenza quanto più le riproduzioni erano simili al reale. L’areale rivela, e svela, uno scenario, giacimento di segni e di indici. La “a” di suffisso alla parola ha il valore della negazione, si pone tra reale e irreale definendone una regione instabile e plastica. Il mondo, l’universo, quindi, si può intendere come un insieme di realazioni, non di cose. In questo concetto c’è l’implicita ammissione che l’immagine non è, ne tantomeno potrebbe essere, univoca; gli intenti, le prospettive, le capacità di estrapolare o le mediazioni culturali, possono essere molteplici. L’immagine non è più il punto apicale – Aglieri docet – di uno scenario “congelato”, non è più fine a se stessa, non deve “certificare” alcun elemento concreto, ma è uno strumento potente e sofisticato che può svelare i numerosi strati di lettura e le relazioni che intercorrono tra l’osservazione, lo stato delle cose e la sua rappresentazione. Immagine areale, quindi, come un espediente per valicare l’oltre, snaturando l’apparenza delle cose. Un’immagine “reale” deve il più possibile discostarsi dalla realtà per rappresentarla veramente. Deve condurre un percorso di purificazione da convenzioni, preconcetti e clicchè. Il mondo non è quello che vediamo, ma quello che vedremmo se solo riuscissimo a trasporre le visuali. E forse chissà, ce ne sarebbero ancora altri, più latenti, ancora più profondi nella mischia tra reale e irreale: nell’areale.

mercoledì, ottobre 16

Areale. No, di questo non voglio scriverne oggi. E' un concetto complesso ed estremamente interessante. Con questi due neologismi innauguro gli scritti su i nuovi termini coniati per l'esigenza di spingersi oltre le barriere. Quando la cassetta degli attrezzi non prevede lo strumento adatto, quando le nostre idee sono imbrigliate da mezzi troppo quadrati, muoviamo allora la fantasia creando nuovi scenari. Sperando che il purista di turno non storca il naso...
Empresente. Fosco Maraini, srittore e fotografo, ha coniato tale termine per soddisfare l’esigenza di ogni artista sincero: spingersi oltre, valicando le barriere conosciute e imposte. L’empresente è il presente che emerge, quell’istante dilatato in cui l’azione, o sua porzione, si svolge. Contiene in se un senso dinamico e introduce contemporaneamente un mezzo efficace e realistico, perché congelare l’attimo è impossibile fugge per definizione, valica ogni capacità umana di intendere l’infinitamente grande e piccolo. Il mosso intenzionale è, nelle arti figurative, uno degli espedienti per rendere il senso della variazione scenica che si evolve. In fondo è un modo filosofico di essere più realisti, dato che il passato ed il presente sono frutto delle nostre elucubrazioni mentali, o dei nostri filtri e adattamenti ed il presente, invece, è una chimera impalpabile.

martedì, ottobre 15

Perdonatemi, ma ne sono convinto, meglio parlare quando si ha qualcosa da dire, quando non si scade nell’ovvio, nello scontato quindi banale. Non ditemi “passerà”, “abbi pazienza”, “sii forte”, “non abbatterti”, “hai delle responsabilità” e poi una schiera di “abbi”, “devi”, “puoi”. Non ditelo, non dite mai questa schiera di scontati anatemi, perché ad ognuno di essi vi dirò “e allora?” e vi garantisco che non c’è risposta che tenga, che abbia mai tenuto. Si, so tutto, capisco, le ho viste, capite, sentite, ma cosa credete che quelle formulette magiche non le conosciamo tutti? Dovrei forse fare un sospiro ed essere contento, come dopo aver preso la pillola per il mal di testa?
Sono, già, il più grande viaggiatore perché sogno, vago ed evado e perché vedo limpida la realtà, pur dura e sferzante quanto può essere. L’avverso, l’inevitabile ed il fato sono il propellente con cui mi muovo irrequieto. Cosa me ne faccio di un contentino. I torpori anestetici della mente, se volete, forniteli agli altri, io non so cosa farmene perché il torpore dell’indefinito è già la mia linfa dell’assoluto, proprio perché sono avviluppato a doppio filo all’impeto vorticoso del reale. Se incrociamo i passi, se ci attraversiamo, già vi vedo e questo vuol dire che non mi assopisco, perché per non sentire dolore mi assopirei. Ci sono, ci voglio essere sino alla fine, qualunque sia, e chiunque me la dia, poi vagherò, vedrete, e nessuno mai potrà fermare il mio sfinito volo eterno tra le cose e mai sopra esse. Sono avverso alle formule, alle ricette, ai filtri, perché non devo operare nessun calcolo per alcuna soluzione. Vivo tra i simboli che mi appagano e riflettono e c’è poco da cambiare, si può solo osservare, qui o là o tra loro.
Non che ci fosse un trepidio, no, e che da li venivo. Posso spiegarlo, tranquilli, posso spiegare tutto. E poi che importanza ha, l’importante è muoversi, scogliere il pensiero e cominciare a camminare, magari, poi, è meglio non voltarsi, proseguire, proseguire, poi basta. E’ li il punto. Mi succede ogni momento, ma tutti i momenti non sono uguali, strano chiamarli allo stesso modo, ma così è scritto, e quindi sia. Ci si trova, ma chi sa il perché? Certi giorni si sommano all’infinito e ci sono spazi troppo vasti, che niente hanno a che fare con i mari o il cielo, e ci sono squarci insanabili. Ovunque ti adagi c’è un sospiro troppo forte in cui non si intravede la fine, roba da perderci la testa, da aver paura, e poco più. Vorrei un punto, vorrei proprio quello, più improprio del solito, più chiaro e flessibile. Righe, righe che scorrono e altro. Ci sono inverni insospettabili, ci sono foglie che cadono come altari ad un Dio pagano, se non erro sono schiere in più filari, vie frastagliate nell’ignoto. Legittimo, tranne a ricredersi, aspettare le primavere al raduno dei soccorsi dell’anno, andateci, andateci pure, tanto cosa cambia, fuori c’è luce, e chissà per quanto.